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KHALED HOSSEINI.
IL CACCIATORE DI AQUILONI.
PIEMME - 2004.
Traduzione di Isabella Vaj
www.edizpiemme.it
Questo libro dedicato a Haris e Farah, entrambi noor dei miei occhi,
e ai bambini dell'Afghanistan.
Uno.
Dicembre 2001.
Sono diventato la persona che sono oggi all'et di dodici anni, in una
gelida giornata invernale del 1975.
Ricordo il momento preciso: ero accovacciato dietro un muro di argilla
mezzo diroccato e sbirciavo di nascosto nel vicolo lungo il torrente
ghiacciato. E' stato tanto tempo fa. Ma non vero, come dicono molti,
che si pu seppellire il passato. Il passato si aggrappa con i suoi
artigli al presente. Sono ventisei anni che sbircio di nascosto in
quel vicolo deserto.
Oggi me ne rendo conto.
Nell'estate del 2001 mi telefon dal Pakistan il mio amico Rahim Khan.
Mi chiese di andarlo a trovare.
In piedi in cucina, il ricevitore incollato all'orecchio, sapevo che
in linea non c'era solo Rahim Khan. C'era anche il mio passato di
peccati non espiati. Dopo la telefonata andai a fare una passeggiata
intorno al lago Spreckels. Il sole scintillava sull'acqua dove dozzine
di barche in miniatura navigavano sospinte da una brezza frizzante. In
cielo due aquiloni rossi con lunghe code azzurre volavano sopra i
mulini a vento, fianco a fianco, come occhi che osservassero dall'alto
San Francisco, la mia citt d'adozione. Improvvisamente sentii la voce
di Hassan che mi sussurrava: Per te qualsiasi cosa. Hassan, il
cacciatore di aquiloni.
Seduto su una panchina all'ombra di un salice mi torn in mente una
frase che Rahim Khan aveva detto poco prima di riattaccare, quasi un
ripensamento.
Esiste un modo per tornare a essere buoni. Alzai gli occhi verso i due
aquiloni. Pensai ad Hassan. A Baba e ad Ali. A Kabul. Pensai alla mia
vita fino a quell'inverno del 1975. Quando tutto era cambiato. E io
ero diventato la persona che sono oggi.
Due.
Da bambini Hassan e io ci arrampicavamo su uno dei pioppi lungo il
vialetto che portava a casa mia e da lass infastidivamo i vicini
riflettendo la luce del sole in un frammento di specchio. Ci sedevamo
uno di fronte all'altro su un ramo, le gambe nude a penzoloni, e
mangiavamo more di gelso e castagne di cui avevamo sempre le tasche
piene. Usavamo il frammento di specchio a turno, ci tiravamo le more e
ridevamo come matti. Vedo ancora i raggi di sole che filtrano
attraverso il fogliame illuminando il viso di Hassan: perfettamente
tondo, come quello di una bambola cinese di legno, con il naso largo e
piatto, gli occhi a mandorla, stretti come una foglia di bamb, giallo
oro, verdi, o azzurri come zaffiri a seconda della luce. Ricordo le
piccole orecchie dall'attaccatura bassa e il mento appuntito, che
sembrava un'appendice carnosa, aggiunta al viso in un secondo momento.
E quel labbro spezzato, un errore del fabbricante di bambole, cui
forse era sfuggito lo scalpello, per stanchezza o disattenzione.
Talvolta, mentre ce ne stavamo nascosti sugli alberi, proponevo ad
Hassan di estrarre la sua fionda e mitragliare di castagne il pastore
tedesco del nostro vicino. Lui non voleva mai, ma se io glielo
chiedevo, glielo chiedevo veramente, cedeva. Non mi avrebbe mai
rifiutato nulla. E la sua fionda era infallibile.
Quando suo padre Ali ci scopriva, si arrabbiava - per quanto si
potesse arrabbiare una persona gentile come lui - e minacciandoci con
il dito ci faceva scendere dall'albero. Poi ci requisiva lo specchio e
ci ripeteva quello che sua madre diceva a lui quando era piccolo: che
anche il diavolo usa gli specchi per distrarre i musulmani dalla
preghiera. ÆE ride mentre lo faÇ aggiungeva sempre, guardando
severamente il figlio.
ÆS, padreÇ balbettava Hassan con gli occhi a terra.
Ma non mi ha mai tradito. Non ha mai confessato che tanto lo specchio
quanto le castagne erano idee mie.
Il vialetto di mattoni rossi che conduceva al cancello in ferro
battuto continuava all'interno della propriet di mio padre,
terminando nel giardino sul retro della casa.
Tutti ritenevano che casa nostra, la casa di Baba fosse la pi bella
di Wazir Akbar Khan, un quartiere nuovo e ricco nella zona nord di
Kabul. C'era addirittura chi pensava che fosse la pi bella della
citt. Il vialetto d'accesso, fiancheggiato da cespugli di rose,
conduceva a una grande costruzione con pavimenti in marmo e finestre
immense.
Il pavimento dei quattro bagni era rivestito da intricati mosaici di
piastrelle, scelte personalmente da Baba a Isfahan. Alle pareti delle
stanze erano appesi arazzi intessuti con fili d'oro, che Baba aveva
acquistato a Calcutta.
Al piano superiore c'erano la mia camera da letto, quella di Baba e il
suo studio, chiamato anche la Æstanza del fumoÇ, che profumava sempre
di tabacco e cannella. Baba e i suoi amici se ne stavano l, dopo
cena, sdraiati sulle poltrone di pelle nera.
Caricavano le pipe - Baba diceva "rimpinzare" - e discutevano dei loro
tre argomenti preferiti: politica, affari, calcio. A volte chiedevo a
Baba il permesso di rimanere con loro, ma lui ogni volta mi
rispondeva:
ÆQuesto il momento degli adulti. Perch non vai a leggere un
libro?Ç. Poi chiudeva la porta lasciandomi solo a domandarmi perch
con lui fosse sempre il momento degli adulti. Mi sedevo in corridoio,
le ginocchia piegate contro il petto, e a volte rimanevo l un'ora,
anche due, ad ascoltare chiacchiere e risate.
Il soggiorno al pianterreno aveva una parete curvilinea con mobili
costruiti su misura. Sui muri immagini di famiglia. Una vecchia foto
sgranata del nonno con re Nadir Shah, del 1931, due anni prima che il
sovrano venisse assassinato: stivali da caccia, fucile in spalla e ai
loro piedi un cervo abbattuto.
C'era una foto del matrimonio dei miei genitori: mio padre
elegantissimo nel suo completo nero, mia madre una giovane e
sorridente principessa in bianco. In un'altra foto mio padre e il suo
migliore amico e socio in affari, Rahim Khan, ritratti all'esterno
della casa.
Nessuno dei due sorride. Ci sono anch'io, in braccio a mio padre che
ha l'aria stanca e triste. Le mie dita stringono il mignolo di Rahim
Khan.
Di fianco al soggiorno c'era la sala da pranzo. Dal soffitto a volte
pendeva un lampadario di cristallo e al centro della stanza c'era un
tavolo di mogano intorno al quale potevano sedersi una trentina di
invitati - cosa che, dato che mio padre amava dare feste sontuose,
accadeva quasi ogni settimana. Sulla parete di fronte alla porta c'era
un imponente camino di marmo che per tutto l'inverno splendeva di
fiamme rosso-arancio.
Attraverso un'ampia porta scorrevole in vetro si accedeva a una
terrazza semicircolare che dava su un prato con alcune file di
ciliegi. Lungo il muro orientale Baba e Ali avevano seminato un
piccolo orto con pomodori, peperoni, menta e del granturco che non
attecch mai. Io e Hassan lo chiamavamo "il muro del mais malato".
All'estremit meridionale del giardino, all'ombra di un nespolo, c'era
la casa dei domestici, una capanna di argilla dove abitavano Hassan e
Ali e dove io, nei diciotto anni in cui vissi l, entrai pochissime
volte.
Era una stanza spoglia ma pulita, male illuminata da due lampade al
cherosene e arredata con due materassi appoggiati alle pareti, uno di
fronte all'altro, un vecchio tappeto di Herat con i bordi sfilacciati,
uno sgabello a tre gambe e, in un angolo, un tavolo dove Hassan
disegnava. Appeso al muro, solo un piccolo arazzo con le
parole Allah-u-akbar, ricamate a perline, che Baba aveva regalato ad
Ali di ritorno da uno dei suoi viaggi a Mashad.
Era in quella capannuccia che Sanaubar, la madre di Hassan, l'aveva
messo al mondo nell'inverno del 1964, un anno prima che mia madre
morisse dandomi alla luce. Hassan invece aveva perso la sua una
settimana dopo la nascita, in un modo che per un afghano peggio
della morte: Sanaubar era fuggita con una compagnia di ballerini e
cantanti girovaghi.
Hassan non parlava mai di lei, come se non fosse mai esistita. Mi
chiedevo se la sognava, se immaginava che aspetto avesse e dove si
trovasse. Mi domandavo se desiderava incontrarla. Provava anche lui la
nostalgia struggente che provavo io per la madre che non avevo mai
conosciuto? Un giorno, mentre andavamo al cinema Zainab a vedere un
nuovo film iraniano, prendemmo la scorciatoia che attraversava la
caserma vicino alla scuola media Istiqlal. Baba ce l'aveva severamente
proibito, ma in quel periodo si trovava in Pakistan con Rahim Khan.
Scavalcammo lo steccato che circondava la caserma, superammo un
torrente e sbucammo in uno spiazzo di terra battuta dove arrugginivano
vecchi carri armati abbandonati. Alcuni soldati giocavano a carte e
fumavano all'ombra di uno di quei relitti. Uno ci scorse e, dando di
gomito al suo vicino, chiam Hassan.
ÆEhi, tu. Io ti conosco.Ç Non l'avevamo mai visto prima. Era un uomo
tarchiato con la testa rasata e una barba nera di qualche giorno. Il
modo in cui ci guardava, con un sorriso lascivo, mi spavent. ÆNon
fermartiÇ dissi tra i denti.
ÆEhi, hazara ! Guardami in faccia quando ti parlo!Ç gli url il
soldato. Pass la sigaretta al suo vicino, un indice e pollice della
mano destra e infil il medio della sinistra in quel cerchietto.
Dentro e fuori. Dentro e fuori. ÆHo conosciuto tua madre, lo sapevi?
L'ho conosciuta proprio bene. L'ho presa da dietro laggi, vicino al
torrente.Ç I soldati scoppiarono in una risata. Uno fischi.
ÆNon fermarti, non fermartiÇ ripetei.
ÆChe fica stretta e zuccherosa aveva!Ç diceva ghignando il soldato,
mentre i suoi camerati gli stringevano la mano. Pi tardi, nel buio
del cinema, sentii Hassan singhiozzare. Le sue guance erano rigate di
lacrime. Lo attirai a me. Lui appoggi la testa sulla mia spalla. ÆTi
ha scambiato per qualcun altroÇ sussurrai. ÆTi ha scambiato per
qualcun altro.Ç Nessuno si era stupito quando Sanaubar era scappata,
ma tutti erano rimasti perplessi quando Ali, che sapeva il Corano a
memoria, aveva sposato quella donna bella e senza scrupoli, che aveva
diciannove anni meno di lui e una pessima reputazione. Come Ali,
Sanaubar era una sciita di etnia hazara, ed essendo sua prima cugina
era naturale che lui l'avesse chiesta in moglie. Tuttavia, i due non
avevano niente in comune. Si vociferava che i lucenti occhi verdi e il
sorriso malizioso della ragazza avessero indotto al peccato
innumerevoli uomini e che il sensuale ondeggiare dei suoi fianchi
evocasse fantasticherie di infedelt.
Ali, invece, aveva una paralisi ai muscoli della mascella, che gli
impediva di sorridere. Aveva un'espressione perennemente cupa, ma
talvolta i suoi occhi a mandorla si illuminavano in un sorriso o si
spegnevano nel dolore. Si dice che gli occhi siano lo specchio
dell'anima, niente era pi vero per Ali, che solo attraverso gli occhi
rivelava se stesso.
Inoltre la poliomielite gli aveva atrofizzato la gamba destra,
rendendo la massa muscolare sottile come un foglio di carta. Ricordo
che un giorno, avevo circa otto anni, mi aveva portato con s al bazar
per comperare del naan. Camminavo dietro di lui canterellando e lo
guardavo procedere faticosamente, sollevando la gamba scheletrica che
descriveva un ampio arco prima di posarsi a terra, mentre lui spostava
tutto il peso del corpo sulla destra. Era un miracolo che non cadesse
a ogni passo. Quando provai a imitarlo per poco non andai a finire nel
fango. Ridacchiai e Ali si gir, ma non disse niente. N allora n
mai. Continu a camminare.
La faccia e l'andatura di Ali spaventavano i bambini pi piccoli del
quartiere, ma quelli pi grandi lo seguivano canzonandolo mentre
arrancava per le strade. ÆEhi, Babalu, chi hai mangiato oggi?Ç lo
apostrofavano in un coro di risate. ÆChi hai mangiato oggi,
Nasopiatto?Ç Ali aveva i tratti mongolici caratteristici degli hazara.
Per anni tutto ci che avevo saputo di loro era che discendevano dai
mongoli e che assomigliavano ai cinesi. I libri di testo quasi non ne
parlavano. Poi, un giorno, nello studio di Baba, trovai un vecchio
libro di storia di mia madre, scritto da un iraniano. Quella sera, a
letto, lo lessi e fui sorpreso di trovare un intero capitolo sugli
hazara. Un intero capitolo dedicato alla popolazione di Hassan!
Scoprii che la mia gente, i pashtun, li aveva perseguitati e oppressi.
Da secoli, periodicamente, gli hazara cercavano di ribellarsi, ma i
pashtun "li reprimevano con inaudita violenza". Il libro diceva che la
mia gente li aveva uccisi, torturati, aveva bruciato le loro case e
venduto le loro donne. E una delle ragioni era che loro erano sciiti e
noi sunniti.
Il libro diceva cose che nessuno mi aveva mai detto.
Ma anche cose che io sapevo benissimo, per esempio che gli hazara
erano chiamati nasipiatti, mangiaratti, asini da soma.
La settimana seguente mostrai al mio maestro il libro. Scorse in
fretta un paio di pagine e me lo restitu con un sorrisetto di
sufficienza. ÆSe c' una cosa che gli sciiti sanno fare bene passare
per martiri.Ç E quando pronunci la parola "sciiti" fece una smorfia,
come se si trattasse di una malattia infettiva.
Nonostante Sanaubar appartenesse alla stessa etnia e addirittura alla
stessa famiglia di Ali, non esitava a unirsi ai ragazzini nel
dileggiare il marito.
La gente fin per sospettare che il matrimonio fosse stato combinato
tra Ali e suo zio, il padre di Sanaubar, per restituire una parvenza
di dignit al nome della famiglia che la ragazza aveva spudoratamente
macchiato.
Ali non si vendic mai dei suoi aguzzini, non solo perch non era in
grado di acciuffarli, ma soprattutto perch era impermeabile agli
insulti. Aveva trovato la gioia e un antidoto al dolore con la nascita
di Hassan. Il parto era andato liscio come l'olio. Nessuna ostetrica,
nessun anestesista, nessun sofisticato strumento di monitoraggio.
Sanaubar, stesa su un materasso, aveva partorito con l'aiuto di Ali e
di una levatrice. In realt non aveva avuto bisogno di grande
assistenza, perch sin dalla nascita Hassan aveva dato prova della sua
vera natura, della sua incapacit a fare del male. Qualche grido, un
paio di spinte e Hassan era venuto al mondo. Con un sorriso.
Secondo la confidenza che l'indiscreta levatrice aveva fatto alla
serva di un vicino, Sanaubar aveva dato un'occhiata al neonato che Ali
teneva in braccio e, visto il taglio sul labbro, era scoppiata in una
risata sarcastica.
ÆEcco,Ç aveva detto Æora hai questo idiota di figlio che sorrider al
posto tuo!Ç Si era rifiutata persino di prendere in braccio il
piccolo. Cinque giorni dopo era sparita.
Baba aveva assunto la stessa balia che aveva allattato me. Ali ci
aveva raccontato che era una donna hazara con gli occhi azzurri,
originaria di Bamiyan, la citt con le colossali statue dei Buddha.
ÆCantava con una voce dolcissimaÇ ci diceva.
Nonostante conoscessimo gi la risposta, Hassan e io gli chiedevamo:
ÆChe cosa ci cantava?Ç. Allora Ali si schiariva la voce e iniziava:
Sulla cima di un'alta montagna
gridai il nome di Ali, Leone di Dio.
Oh, Ali, Leone di Dio, Signore degli Uomini,
rallegra i nostri cuori dolenti.
Poi ci ripeteva che c'era una fratellanza tra chi si era nutrito allo
stesso seno, una parentela che neppure il tempo poteva spezzare.
Hassan e io avevamo succhiato lo stesso latte, avevamo mosso i primi
passi sullo stesso prato e avevamo pronunciato le prime parole sotto
lo stesso tetto.
La mia fu Baba.
La sua Amir, il mio nome.
Ripensandoci ora, credo che le radici di ci che accadde nell'inverno
del 1975 - e di tutto ci che ne segu- affondassero gi in quelle
prime parole.
Tre.
Secondo una leggenda familiare, una volta, in Belucistan, mio padre
aveva lottato a mani nude con un orso bruno. Se questa storia avesse
riguardato un'altra persona sarebbe stata giudicata laaf, la tipica
tendenza all'esagerazione degli afghani. Ma nessuno avrebbe messo in
dubbio un racconto di cui fosse protagonista Baba. E in ogni caso lui
aveva la schiena solcata da tre cicatrici parallele. Ho ricostruito
quella fantasia nella mente innumerevoli volte. L'ho persino sognata.
E nei sogni non riuscivo mai a distinguere l'orso da Baba.
Era stato Rahim Khan a dargli il soprannome con cui poi Baba divenne
famoso: Toophan agha, Mister Uragano. Mio padre infatti era una forza
della natura, un gigantesco esemplare di pashtun, con una massa di
capelli castani ribelli al pari di lui e mani che sembravano capaci di
sradicare un salice. Come diceva Rahim Khan, con lo sguardo dei suoi
occhi neri avrebbe costretto Æil diavolo a chiedere misericordia in
ginocchioÇ. Quando faceva il suo ingresso alle feste, tutti si
voltavano verso i suoi due metri di altezza come girasoli.
Era impossibile ignorare Baba, anche quando dormiva. Bench io mi
tappassi le orecchie con batuffoli di cotone e mi tirassi la coperta
fin sulla testa, lo sentivo russare attraverso le pareti. E' un
mistero come mia madre riuscisse a dormire con lui.
Verso la fine degli anni Sessanta, quando io avevo cinque o sei anni,
Baba decise di costruire un orfanotrofio. Rahim Khan mi ha raccontato
che fu lui stesso a stendere il progetto, bench non avesse nessuna
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