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Il Gioco Degli ImmortaliRomanzo di Massimo Mongai1999A mia sorella Annamaria e a mio cognato Alfonso,due persone pazientiChe l'inse?(Comincio?)BalillaIl RisveglioLa mia è una storia un po' complicata.No, non è esatto, questo è a dir poco un eufemismo.La mia è una storia molto complicata, complicata e lunga al punto che io non so bene come cominciarla; anche perché me ne sono successe talmente tante di cose, e di tanto improbabili, che semplicemente non so "da dove" cominciare.Forse la cosa migliore è cominciare a raccontare quello che è l'ultimo ricordo cosciente che ho della mia vita sulla Terra.È un ricordo molto vivido. Ricordo che ero in un letto d'ospedale. Credo che fosse l'Ospedale di San Giacomo, il più vicino a casa mia (vivevo a via Frattina, al centro di Roma), dove per forza di cose mi dovevano aver portato; ma non ne sono sicuro, dato che non ci ero mai stato prima; anzi, a dire il vero io non ero mai stato in un ospedale in vita mia, non in un letto per lo meno, non a passare una notte: ero sempre stato molto sano.Però devo dire che anche alcuni ricordi immediatamente precedenti non sono meno vividi.In uno ero a casa mia e mi ero appena alzato; mi ero fatto il mio solito caffè, me lo stavo bevendo in cucina, come tutte le mattine, come sempre; in un altro, subito dopo sono in moto, sul lungotevere, quando un imbecille assassino mi taglia la strada proprio davanti a ponte Garibaldi, partendo da fermo alla mia sinistra e diretto verso il ponte.Mi taglia la strada ed io freno, ma pur rallentando tantissimo la mia moto, una vecchissima ma ben tenuta Honda a quattro cilindri, 500cc Four K, pesante com'è frena sì, ma non tanto da non toccare la macchina, che mi ha tagliato la strada, nella parte posteriore sinistra.Ed io cado di lato, quasi da fermo, senza poter fare niente. E ricordo che il casco, che avevo infilato ma non allacciato, vola via.Sono sempre stato un motociclista prudente io; non ho mai corso, non ho mai rischiato, non impennavo la moto e non facevo gare con gli amici. In vita mia ho avuto una moto fra le gambe fin da giovane, ma sempre le ho portate con prudenza. Sono un moto turista, io, non un "centauro folle". E non mi è successo mai niente di pericoloso, nei miei due o tre mini-incidenti di moto.Invece quella volta, vado giù perfino lentamente, cadendo quasi da fermo, e batto la tempia destra proprio sull'unica sporgenza di tutto quel punto di strada, il bordo di ferro del tombino dell'Acea, che sporge di almeno un paio di centimetri dal livello dell'asfalto.E credo di essere svenuto.Il ricordo successivo è appunto quello del letto di ospedale.Immobilizzato a letto, non ero in grado di parlare, né di connettere efficacemente. Sentivo vagamente delle voci vicino a me, che parlavano di una emorragia cerebrale localizzata ma devastante. Credo stessero parlando di me, a qualche mio lontano parente o amico, (i miei sono morti da alcuni anni e sono figlio unico) ma non so o non ricordo a chi.Ci ho pensato molto in questi anni ed ho ricostruito la cosa più o meno in questi termini: all'età di 35 anni, in una bella mattinata di Aprile, ho avuto un incidente stradale, sono caduto, ho battuto la testa e sono svenuto, probabilmente fratturandomi il cranio con chissà quali conseguenze; qualcuno mi ha trovato per tempo e sono stato trasportato all'ospedale vicino casa, dove sono rinvenuto per pochi secondi, paralizzato completamente; dopo di che sono o svenuto o entrato in coma.E poi, non so quanto tempo dopo, sono morto.Devo esser morto, se no non si spiega quello che è accaduto dopo. Certo potrei non essere morto ed essere entrato in una specie di coma molto lungo e molto ricco di sogni. Ma non credo sia così, per molti motivi. Comunque se sono morto, come credo, non ho provato alcuna sensazione speciale. Non mi è apparso Dio, non ho visto luci celestiali, non ho sentito voci ultraterrene.Dopo un periodo di tempo che non so definire, che non posso definire, ma che ho sempre pensato molto lungo, mi svegliai di nuovo.La prima impressione fu che ero ancora in un letto d'ospedale. Perfettamente sveglio, perfettamente a posto, e in grado di muovermi. Tant'è che mi drizzai sul letto stesso, reggendomi sui gomiti. Non mi accorsi subito di essere completamente nudo. Mi accorsi però di non essere in un letto d'ospedale, ma in un letto strano, rigido, come fosse fatto di marmo, ma non così freddo o duro come poteva essere il marmo, e coperto di un lenzuolo bianco.E di non avere cuscino, né vestiti, né alcuno intorno a me. Non c'erano altri letti, né infermiere. Assolutamente niente e nessuno.Mi drizzai del tutto.Ero in una stanza ampia, grosso modo, sei metri per sei, pulitissima, dalle pareti bianche, con una luminosità diffusa che non sembrava provenire da nessuna fonte specifica. La stanza era completamente vuota e senza finestre. E senza una porta.E però non c'era nient'altro nella stanza. Ma proprio niente, intendiamoci: non un battiscopa, non un lampadario, non un filo elettrico, non una finestra, o una macchia per terra, un graffio ad una parete, una macchia al soffitto; un qualunque segno insomma che dimostrasse che in quel luogo ci fossero, o ci fossero mai stati, altri esseri viventi a parte me.Ero all'interno di una specie di enorme scatolone bianco, cubico, di circa sei metri per lato, adagiato su un letto di marmo e con un lenzuolo addosso. Basta.In realtà era un luogo molto strano. Spettrale quasi. E mi stupii di essere così calmo.È buffo a pensarci o a dirlo, ma mi resi conto che ero calmo, che non c'era motivo per esserlo e che la cosa mi stupiva, il tutto in un'unica sensazione.- Sei in grado di comprendere?La voce era forte, leggermente echeggiante e veniva da una direzione imprecisata. Non aveva accento, era neutra, avrebbe potuto essere una voce di un uomo come quella di una donna, anche se sarebbero stati una donna ed un uomo ben strani ad avere una voce simile!Né di giovane né di vecchio, né indifferente né ansiosa; non aveva assolutamente alcuna caratteristica umana.Mi resi conto di essere veramente sveglio quando cominciai a chiedermi da dove veniva.- ...cosa? - chiesi.- Sei in grado di comprendere? - riprese la voce.- Sì... - risposi esitando.- Sono in attesa richieste - disse la voce.- Prego...?- Sono in attesa richieste - ripeté la voce.E andammo avanti così per un pezzo.A qualunque domanda io facessi, la voce rispondeva "Sono in attesa richieste", solo questo e nient'altro che questo. Ah, no, se io chiedevo "Voglio parlare con un medico" oppure "Ma dove sono?" oppure "Ma dove sono le infermiere" o qualunque altra cosa simile, qualunque richiesta ragionevole insomma, rispondeva: "Richiesta non pertinente".Per tutto il giorno (o meglio, per un lungo periodo: non c'era traccia di giorno o di notte, lì, anche se c'era un alternarsi della luce che dopo un periodo che non potevo misurare ma che a occhio era di una mezza giornata si attenuava un po') non riuscii a ottenere altri risultati.Inutile che vi dica che dopo la prima mezz'ora, cominciai ad avere paura e la paura finì rapidamente con lo sfociare nel panico.Dov'ero finito? In quale situazione? Cos'era quella stanza? Una prigione? Non era evidentemente una stanza d'ospedale, nonostante la prima impressione.Ma cos'era? Un laboratorio sotterraneo per esperimenti su come indurre la pazzia in un essere umano? Chi l'aveva mai visto un posto così, senza finestre, senza porte, senza una fonte riconoscibile di luce, con una voce come quella che ripeteva ossessivamente quelle frasi senza senso!?!La paura andava e veniva. Nei momenti in cui non ero preso dal panico ripetevo ossessivamente domande intese a capire dove mi trovavo e non ottenevo altra risposta che "Richiesta non pertinente"; nei momenti invece in cui il panico la faceva da padrone urlavo disperato, oppure piangevo rincantucciato nel letto, sotto il lenzuolo.Alla fine del "secondo giorno", cioè del quarto periodo di variazione di luce, i morsi della fame e della sete cominciarono a farsi sentire. E nel bel mezzo di una sequenza urlata disperatamente di domande regolarmente rigettate dalla voce, esplosi.- Bastardo! Ho fame! Ho sete! Dammi del cibo!- Di che tipo? - rispose la voce.Mi fermai spalancando gli occhi!- Come sarebbe dire di che tipo?- Che tipo di cibo - rispose.- Ah, eh... pane e prosciutto... - risposi balbettando, la prima cosa che mi era venuta in mente.- Che tipo di pane? Che tipo di prosciutto?- N-non so, pane qualunque, prosciutto crudo...- Prosciutto crudo disponibile. Quantità?- Un paio d'etti...- Che tipo di pane?- MA T'HO DETTO PANE QUALUNQUE! - urlai alla voce, al nulla.- Che tipo di pane? - ripeté imperterrito.- ROSETTE! - urlai.- Disponibile. Quantità?- DUE!- Servito - disse.Mi guardai intorno e sul bordo del letto, alle mie spalle trovai due rosette al prosciutto. Poggiate in un vassoio, forse di metallo, forse di plastica, dai bordi leggermente rialzati.Una cosa assolutamente normale che in quel contesto era incongrua ed assurda quanto la situazione. Mi gettai sui panini e li divorai. Cominciavo forse a capire.- Voglio acqua - dissi ad alta voce.- Potabile? - rispose.- Potabile.- Quantità?- Un litro.Ed una bottiglia d'acqua apparve dal nulla proprio sotto i miei occhi, esattamente dove erano stati fino a poco prima i panini.Insomma cominciai così a capire, per fame. È proprio vero: la fame aguzza l'ingegno. Di chiunque fosse la voce era disponibile a fornirmi praticamente di tutto. O quasi.Dapprima chiesi altro cibo, abiti, coperte, oggetti di tutti i tipi. E mi resi subito conto che ogni richiesta doveva essere dettagliata i... [ Pobierz całość w formacie PDF ]

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